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Venezia 80, Dogman di Luc Besson è un film brutale (che si perde sul finale): la recensione

Dogman, in concorso al Festival di Venezia, racconta la storia di un bambino chiuso dal padre in una gabbia, che poi diventa uomo e trova nei cani la sua unica fonte di affetto e comprensione

di Beatrice Anfossi | 3 Settembre 2023
Foto: Ufficio stampa Lucky Red

Dogman è un film sull’amore incondizionato, sull’odio cieco, sulla rabbia e sulla superstizione. È un film brutale, perché mette lo spettatore davanti alla crudeltà umana, senza filtri. Allo stesso tempo, è una storia di affetto, di empatia e di comprensione reciproca: tra gli essere umani, ma soprattutto tra uomo e animale. Come ha raccontato il regista Luc Besson in conferenza stampa, “la scintilla di questa storia nasce dalla lettura di un articolo di giornale, che raccontava la storia di un bambino chiuso in una gabbia”. Da lì, il tentativo di immaginarsi come sarebbe potuta essere la vita di un ragazzo “le cui radici erano state recise in modo così drastico”. “Cosa potrà diventare?”, si è chiesto il regista, “un terrorista o Madre Teresa?”.

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La pellicola, in concorso all’80° Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia, racconta infatti la vicenda umana di un uomo, vittima da bambino di abusi da parte del padre e del fratello – che lo rinchiudono in una gabbia insieme ad alcuni cani – che lo segneranno irrimediabilmente per il resto della sua vita. Unico motivo di conforto, il rapporto unico che Douglas – questo è il suo nome – è in grado di costruire proprio con i cani, che diventano a tutti gli effetti la sua famiglia.

Assolutamente magistrale l’interpretazione dell’attore protagonista, Caleb Landry Jones (già migliore attore a Cannes per Nitram), in grado di mettere in scena un personaggio complesso e sfaccettato. Inevitabilmente, il pensiero vola subito al Joker di Joaquin Phoenix: in entrambi i casi lo spettatore è messo davanti a uomini posti ai margini della società, che sviluppano una rabbia e una brutalità con le quali non è difficile empatizzare, poiché mantengono intatta la loro umanità.

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Un ruolo cruciale lo svolgono poi in questo film i cani, tantissimi. “La selezione dei cani è stato un processo piuttosto lungo, durato un paio di mesi”, ha raccontato Besson. Ogni cane arrivava sul set con il proprio trainer, l’unico in grado di impartirgli i comandi. “Dopo il ciak i trainer si nascondevano ovunque: chi sotto il tavolo, chi dietro una sedia”. E forse sono proprio gli stessi cani a rappresentare l’unico elemento di debolezza della pellicola: soprattutto nella parte finale, con un effetto a metà tra la Carica dei 101 e Mamma ho perso l’aereo. Nella scena della resa dei conti, in particolare, Luc Besson si è lasciato prendere la mano, sfociando in quella che non abbiamo paura di chiamare un’americanata. Nonostante questo, però, l’effetto un po’ cringe di quei minuti – che potevano semplicemente essere evocati – non cancella la sensazione di turbamento e grande empatia che il film ti lascia addosso, una volta terminato. Crediamo che sia questo il sintomo principale di qualcosa di riuscito.