Ha firmato oltre centocinquanta trasmissioni televisive per Rai e Mediaset, ha vinto nove Telegatti, ha scritto più di tremila canzoni, partecipando ventidue volte al Festival di Sanremo in qualità di autore musicale e dieci volte allo Zecchino d’Oro. Salvatore De Pasquale, in arte Depsa, è uno dei più grandi autori italiani in campo televisivo, musicale e teatrale. Un professionista con la P maiuscola che ha avuto la fortuna e il privilegio di lavorare a fianco dei più grandi, imparando i segreti e l’arte di quell’affascinante mezzo chiamato tv. Ed è proprio del piccolo schermo che, di recente, è tornato a parlare. Il 3 marzo, infatti, è uscito il suo nuovo libro dal titolo La mala tv, una sorta di j’accuse in cui Depsa non risparmia le critiche raccontando, senza troppi giri di parole, la decadenza di un medium da salvare. Abbiamo fatto con lui una lunga e intensa chiacchierata: “Vi prego, datemi del tu”, così è iniziata.
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Depsa La mala tv: l’intervista completa
Il 3 marzo è uscito il tuo nuovo libro dal titolo La mala tv, disponibile in tutte le librerie e online. Quando e come è nata l’idea di scriverlo?
Nell’ultimo periodo ho notato un calo notevole di qualità e di buon gusto in generale, in particolare in televisione. Quest’ultima da una parte accondiscende il cattivo gusto e dall’altra lo amplifica. Ho pensato: “Come faccio a convincere i ragazzi, che già vedono poca televisione, a innamorarsi di questo medium se la qualità è questa?”. Quindi da un lato ho voluto prendere la distanza da questo tipo di televisione, e dall’altro ho voluto incentivare i ragazzi a migliorarla. Mi sono sentito in dovere di scrivere questo libro in cui faccio un j’accuse e allo stesso tempo chiedo ai giovani di darsi da fare per cercare la qualità.
Nell’introduzione scrivi: “Una volta andare in televisione rappresentava generalmente il raggiungimento dell’apice di una carriera. Oggi, non di rado, è il punto di partenza di una carriera che dura lo spazio di un niente”. Secondo te qual è il motivo?
Bisogna prima di tutto specificare che oggi c’è una quantità di programmi che, indipendentemente dalla pessima qualità, hanno il vantaggio di costare poco. Questo perché vengono messi come protagonisti degli sconosciuti il cui costo è ovviamente zero o poco più e che, a loro volta, sarebbero disposti a pagare per apparire in tv. Questi personaggi però fanno spettacolo e riempiono ore e ore di palinsesto senza nemmeno grossi sforzi autorali. È un po’ come un gatto che si morde la coda: alla televisione conviene utilizzare questi disperati, che io definisco “morti di fama”, ma allo stesso tempo si perde di vista la qualità. Loro sono contenti perché quando escono da questi programmi si sentono “famosi” e possono fare qualche serata.
Nel secondo capitolo c’è una parte molto interessante in cui parli della tv del dolore. In particolare, hai ricordato – indirettamente – il recente caso di Marco Bellavia al Grande Fratello Vip e quello un po’ più datato di Riccardo Fogli all’Isola dei Famosi, sottolineando che le risate, così come le lacrime, sono contagiose. Qual è il limite che un autore non dovrebbe mai superare?
Innanzitutto, qui devo fare un mea culpa, perché io sono stato uno dei primi a cavalcare la tv del dolore, anche se si trattava di un dolore un po’ diverso perché io con Stranamore ho trattato più che altro sofferenze amorose. Quando il pubblico incomincia ad abituarsi al dolore capisci che c’è bisogno di qualcosa di più forte ed è quello che è successo nei due casi di cui ho parlato nel libro. Ricordo che una volta a Tu si que vales uno dei partecipanti si è presentato per cantare in ricordo della figlia morta, in quel caso credo che si sia toccato il cinismo assoluto: la gente piangeva vedendo il dolore di quel povero papà. Questo è ben diverso dal dispiacersi per una persona che è stata lasciata.
Nel corso della tua esperienza di autore ti è mai capitato di pentirti di una scelta fatta? Oppure di sentire di aver esagerato?
Alla fine degli anni ‘80 ho fatto un programma su Italia 1 dal titolo Passiamo una notte insieme, in cui raccontavamo storie d’amore ed esperienze sessuali. Bisogna tener conto che la televisione commerciale ha meno obblighi rispetto a quelli della televisione statale. C’era questa ragazza molto carina, semplicissima, che lavorava in banca a Piacenza, alla quale piaceva molto apparire. Le chiesi quale esperienze sessuali avesse avuto e lei mi rispose che non ne aveva avute molte, nella norma insomma. Allora lì, per la prima volta in vita mia, provai a fantasticare del tipo: “Se tu dicessi che sei stata sulla barca con un pescatore in Grecia…”, convinto che mi avrebbe detto di no. E invece lei, una volta in onda, seguì precisamente tutto quello che mi ero inventato. Poi mi sono detto: “Poverina l’ho rovinata, perché quando lunedì tornerà in ufficio le salteranno addosso tutti”. Lì ho pensato che, forse, avevo esagerato da una parte, dall’altra mi sono reso conto di quanto la gente sia disposta a tutto pur di andare in tv.
Nel libro hai parlato anche di mala informazione ricordando le due giornaliste del Tg1, Elisa Anzaldo e Maria Luisa Busi, che denunciarono un telegiornale che secondo loro non era più imparziale e che rischiava di compromettere la credibilità degli spettatori. Cosa si può fare per contrastare questo tipo di informazione?
La mala informazione è pericolosa perché condiziona il tuo modo di ragionare, di votare, di accettare il governo o l’opposizione. Adesso, ad esempio, c’è il Tg2 che da alcuni mesi a questa parte è diventato, a parer mio, inguardabile. La prima notizia riguarda quasi sempre Giorgia Meloni perché il nuovo governo si è praticamente appropriato del telegiornale. Una cosa del genere si può risolvere in un solo modo: togliendo l’influenza della politica. I consiglieri d’amministrazione della Rai vengono scelti dai politici, il giorno in cui verranno scelti per meritocrazia la situazione, allora, forse, potrebbe cambiare.
A proposito di giornalismo fatto male, hai definito Le Iene “la peggiore televisione spazzatura perché è spazzatura venduta come informazione”. Puoi spiegarci meglio…
Mettere alla gogna una persona, indipendentemente da quello che ha fatto, è una cosa che non si può fare. Il concetto delle Iene è quello di trovare il cattivo, posizionare le telecamere nascoste, far finta di non farlo vedere – quando in realtà non è così perché è tranquillamente riconoscibile – e metterlo in condizione di farlo innervosire. Questo non è giornalismo, anche perché questo metodo ha portato a due suicidi.
Allora perché questo format piace così tanto al pubblico?
Perché al pubblico piace vedere la gente che viene screditata, ci gode. C’è una sorta di sadismo. Ai telespettatori piace linciare, ed è sempre stato così.
In più occasioni nel tuo libro hai parlato molto positivamente di Maria De Filippi definendola “una delle persone più intelligenti che abbia mai conosciuto”. Cosa apprezzi di più di lei?
Maria è riuscita a trasformare i suoi difetti in qualità. È una grandissima professionista. Tutte le persone che intervista a C’è posta per te sono state scelte da lei. Il primo autore è lei stessa. Ha fatto per anni un esercizio: leggere un giallo e poi fare un riassunto in cinque minuti, poi in due e poi in uno. Così ha sviluppato perfettamente la sintesi del racconto. All’inizio di ogni storia di C’è posta per te Maria tiene in mano una cartelletta con tutte le informazioni scritte, ma non le legge mai. Riesce a memorizzare tutti i particolari più importanti. È da Guinnes dei primati. Sa esattamente cosa vuole il pubblico e come farlo emozionare. Questa è un’arte.
Hai inoltre detto che, al momento, non vedi nessun’altra, sulla panchina di Canale 5, in grado di sostituirla. Molti parlano di Silvia Toffanin come sua possibile erede. Non pensi che possa essere una buona sostituta?
Silvia è brava, ma la vedo come seconda scelta. Sicuramente non è incapace, cerca di seguire le sue orme ma per arrivare ad essere come Maria ce ne vuole. Non penso che sia alla sua altezza.
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A proposito dei grandi della televisione, poche settimane fa ci ha lasciato Maurizio Costanzo. Come si è visto in tv, tu hai partecipato ai suoi funerali: che tipo di rapporto avevate?
Maurizio mi ha voluto bene, mi stimava, ha detto più volte pubblicamente: “De Pasquale è bravo”. Lui non mi chiamava Depsa, ma Sasà, come Maria. Mi ospitò al Maurizio Costanzo Show per presentare un libro ed è lì che ci siamo conosciuti. Più avanti diventò direttore di rete di Canale 5 e in occasione dei cento anni dalla nascita della canzone O sole mio mi chiese un’idea perché voleva fare una serata dedicata a questo. Io gli scrissi un trattamento e lui rimase colpitissimo e mi disse che sembrava scritto da Garinei e Giovannini. Alla fine, però, non si fece niente e io mi arrabbiai anche un po’. Lui rimase talmente colpito dal mio lavoro che mi volle a tutti costi come suo autore a Buona Domenica e iniziai a lavorare anche con Maria. Maurizio si era fissato che gli portassi bene, questo l’ho scoperto più tardi. Ogni volta, prima di andare in onda, gli davo un calcio nel sedere come porta fortuna. C’era un bel rapporto tra noi, non eravamo migliori amici ma ci volevamo bene e ci stimavamo
Attualmente stai lavorando ancora a qualche programma? Hai dei progetti in corso?
Prima di tutto c’è il libro a cui tengo molto. In questo momento preferisco scrivere, studiare, disegnare, esprimere le miei opinioni, piuttosto che mettermi a totale disposizione di uno specifico programma. In particolare, mi piacerebbe riprendere dei progetti che avevo lasciato in sospeso a causa delle mia situazione familiare. Insomma, si vedrà!
Che consiglio daresti ai giovani che vogliono fare carriera in tv?
Consiglierei loro di fare tanta esperienza, anche gratuita, di mettersi a totale disposizione e cercare di capire che cos’è davvero la televisione. Tanta umiltà, disponibilità, amore per quello che fai e soprattutto serietà professionale, forse la più importante per me.