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Air – La storia del grande salto: quel cinema americano che fa tornare la voglia di volare

A raccontare le storie oggi sembrano essere bravi tutti, ma unire fatti realmente accaduti a dialoghi di una profondità disarmante sembrano essere bravi solo Ben Affleck e Matt Damon…

di Sara Radegonda | 9 Aprile 2023
Matt Damon in Air - La storia del grande salto Foto: Warner Bros.

Un film è solo un film finché qualcuno non lo guarda. Davvero. E guardare non significa soltanto sfruttare il dono fisiologico della vista per operare quella sintesi di fotogrammi che permette l’illusione del movimento, ma vuol dire andare oltre, oltre la superficie delle cose e delle storie. Di film che raccontano – o si ispirano – a fatti realmente accaduti sono pieni i cinema e le library delle piattaforme streaming, ma di film che sappiamo intrecciare ad una storia ormai leggendaria, come quella del sodalizio tra la Nike e Micheal Jordan, una riflessione profonda sul capitalismo e sui meccanismi che lo governano ce n’è solo uno: Air – La storia del grande salto.

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Air – La storia del grande salto recensione: il cinema ritrova la potenza della parola

Il film racconta la storia della geniale intuizione di Sonny Vaccaro, interpretato da uno straordinario Matt Damon, di scegliere e corteggiare un Michael Jordan ancora matricola – all’epoca non aveva ancora mai giocato nemmeno una partita nell’Nba -, al fine di creare per lui e su di lui una linea di scarpe Nike personalizzate. Una scommessa più che un semplice progetto, che aveva l’ambizione visionaria di andare oltre il semplice contratto da testimonial che allora dominava le trattative tra aziende e stelle dello sport per dare vita a qualcosa che, a posteriori, si può definire a tutti gli effetti una leggenda. Ma il film, diretto da Ben Affleck che ritroviamo anche nei panni del CEO di Nike Phil Knight, non si limita a portare sullo schermo solo le tappe della storia, ma ci affianca il potere della parola che si riappropria di quella dignità e magnificenza dispersa, negli ultimi anni di cinema, sotto il massiccio peso della supremazia dell’immagine.

Air - La storia del grande salto recensione

Matt Damon in Air – La storia del grande salto
Foto: Warner Bros.

Air – La storia del grande salto Matt Damon nei panni di un sofista moderno

Air – La storia del grande salto è un film di parola fatto di lunghi e vorticosi dialoghi – mai didascalici – che sanno andare oltre la semplice funzione di raccontare per ergersi a metafora sottesa del capitalismo in cui l’arte di convincere la fa da padrona. La storia della nascita delle Air Jordan infatti potrebbe essere raccontata in pochi minuti, ma si dilata temporalmente grazie all’immobilismo apparente delle parole che fungono da battuta d’arresto per l’azione ma che permettono di scavare a fondo, alla ricerca spasmodica di qualcosa che non si vede ma si sente. La smania di andare a fondo, alla ricerca di una verità non immediata, si ritrova anche nella regia, dominata da esasperati primissimi piani – resi possibili dall’incredibile bravura del cast – e da una macchina da presa che sta addosso ai protagonisti, per tentare di cogliere la sintesi tra l’essenzialità delle micro espressioni e le singole parole del dialogo. Nel film tutti parlano per convincere gli altri: prima Sonny, come un sofista moderno, deve convincere i capi della Nike a puntare su Jordan, poi deve convincere l’agente di Jordan che, a sua volta, deve convincere la madre, Delois Jordan interpretata da Viola Davis, ad ascoltare la proposta della Nike. Un gioco di continue negoziazioni, a tratti sfiancante, ma che ben descrive il compromesso continuo che sottende quel sogno americano.

Air - La storia del grande salto recensione

Viola Davis in Air – La storia del grande salto
Foto: Warner Bros.

E il senso del film sta tutto lì, nel lato nascosto, profondo, del sogno americano. A suggerire la dietrologia che sottende tutto il film sono i personaggi stessi con le loro conversazioni, apparentemente deliranti; ma tra tutti, c’è uno scambio di battute che racchiude la verità: Sonny e il direttore Marketing, alla viglia della scommessa che ha messo in gioco la loro carriera, stanno discutendo della canzone Born In The USA di Bruce Springsteen, quando quest’ultimo fa notare di averla cantata a lungo, spinto da uno spirito patriottico, prima di rendersi conto che il brano racconta in realtà di reduce della guerra del Vietnam, una storia di cui c’è ben poco da gioire. E in quello scambio d battute c’è tutto il senso di un cinema che sa cogliere la realtà sottesa delle cose, facendoci tornare la voglia di volare.