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Salvatore Vignola, racconta “You Must Live”, la collezione ispirata al poeta Refaat Alareer

Scopri l’intervista esclusiva a Salvatore Vignola, designer visionario dietro “You Must Live”, un’emozionante collezione che esalta la bellezza della terra palestinese

di Redazione Rumors.it | 21 Febbraio 2024
Foto concessa da Salvatore Vignola

Con una fusione di creatività e impegno sociale, Salvatore Vignola presenta You Must Live, la sua nuova collezione FALL/WINTER ’24-’25, che rappresenta un’ode alla Palestina, alla sua cultura e resistenza in questo tragico periodo. L’evento di presentazione si svolgerà presso Palazzo Giureconsulti, durante la Milano Fashion Week, Venerdi 26 Febbraio. La collezione vuole omaggiare la poesia di Refaat Alareer, poeta palestinese e ucciso a Gaza a dicembre. In collaborazione con artisti palestinesi e internazionali, Vignola dà vita a una passerella esperienziale, arricchita da performance curate dal coreografo Daniele Vitale. Con un design che celebra le tradizioni palestinesi attraverso forme fluide e l’uso del bianco candido, ogni capo racconta una storia di resilienza e appartenenza. L’evento non è solo un’occasione per apprezzare l’estetica, ma anche un mezzo per contribuire alla causa, con le vendite benefiche a sostegno della Palestine Red Crescent Society.

Salvatore Vignola, l’intervista completa

Qual è il nome della collezione che presenterai durante questa MFW e quali sono i suoi attributi distintivi?

La collezione si intitola YOU MUST LIVE ed è un’ode alla Palestina. È ispirata alla poesia di un giovane palestinese, Refaat Alareer, che è stato ucciso il 7 Dicembre a Gaza. Nella poesia lui ci dice:

Se io morirò voi dovete restare vivi, per raccontare quello che è successo. Vendete tutte le mie cose e comprate tanti tessuti bianchi e tante corde. Fateci degli aquiloni e lasciateli volare in cielo, così che i bambini di Gaza possano pensare che gli angeli stanno portando amore.

La collezione esalta la bellezza della terra palestinese attraverso, ad esempio, forme ampie e il colore bianco. I tessuti utilizzati sono stati donati da Readymade Textiles per promuovere la sostenibilità. I capi, reinterpretando l’abito tradizionale palestinese, sono genderless e caratterizzati da stampe evocative realizzate in collaborazione con Trashy Clothing. La Keffiyeh, il copricapo tradizionale della cultura araba e mediorientale, è centrale nella collezione, raccontando la Palestina attraverso intarsi simbolici. L’evento trasforma la sala in un bosco di ulivi, ospitando una performance di danze tradizionali palestinesi coreografate da Daniele Vitale. Gli abiti indossati dai performer sono acquistabili durante l’evento attraverso un QRcode, con tutto il ricavato devoluto a Palestine Red Crescent Society. Inoltre, viene lanciata una capsule di T-shirt benefiche. Questa collezione è più consapevole, da tutti i punti di vista, soprattutto da quello del design.

 

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In che senso a livello tecnico ti senti più consapevole e cosa ti ha aiutato a maturare?

Dai 30 in su, c’è una maggior facilità nel realizzare le proprie ambizioni. Ci si concentra meno sul futile e sulle sciocchezze. Io in primis avevo bisogno di raccontarmi, di rendermi utile e aiutare, ma anche a livello di design sento cresciuta in me maggior sicurezza. Sicuramente, quindi il percorso che ho fatto mi ha reso una persona più consapevole. Non avendo mai lavorato per altri, e avendo iniziato anche molto presto a lavorare per me stesso, ho dovuto imparare un po’ tutto da solo. Una volta uscito dalla NABA ho fatto esperienza di stage un po’ qua e là. Il mio sogno però era aprire un mio brand. Attualmente, mi sono trovato ad avere progetti molto grandi da completare, portandoli a casa anche con discreto successo.  Nonostante sia molto autocritico posso ritenermi soddisfatto.

Qual è il tuo concetto di femminilità e come si riflette nella tua ultima collezione, Regina?

Provengo da una famiglia con molte donne, quindi la mia concezione di femminilità, pur essendo ostentata, è anche molto rispettosa. Nelle mie collezioni, cerco di evocare l’immagine della donna lucana, reinterpretando il concetto con esasperazione, come è tipico dei creativi. Immagino le donne della mia terra come figure combattenti, amazzoni naturali, con un tocco di misticismo. Regina incarna la figura della Madonna Nera di Viggiano, una donna bizantina ricoperta d’oro dal corpo ai capelli, e simbolo della maternità universale. Questa collezione ha sicuramente un appeal sexy, ma non con l’intento di piacere agli uomini, bensì di celebrare la potenza e la bellezza della femminilità autentica.

 

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Qual è, secondo te, il valore intrinseco dei capi di moda slow fashion rispetto alla frenesia della moda fast?

Allora, in realtà, ho molti amici che lavorano nel fast fashion e, a parte i grandi brand che copiano palesemente da altri designer, dietro questo mondo ci sono anche ragazzi come noi. Prima di presentare una collezione, fanno i loro viaggi e le loro ricerche. Secondo me il problema non risiede nei designer, ma piuttosto nella produzione che non rispetta gli standard ecologici.

Ti reputi un designer ecosostenibile?

Quando mi fanno questa domanda, rispondo sempre con un grosso punto interrogativo. Io ovviamente produco ciò che vendo e produco solo in Italia. Addirittura il campionario, che faccio in Basilicata, viene trasportato da me in valigia quando viaggio perché ho paura che spedendolo si perda. Quindi secondo me, noi designer emergenti, siamo tutti ecosostenibili. Diciamo che non è un concetto che scrivo per primo perché sento di avere altro da raccontare. Molte volte questa caratteristica, essendo una tendenza, viene utilizzata come scudo da chi propone collezioni che hanno un’idea creativa meno elaborata.

Hai mai avuto dei blocchi creativi? E se sì, come li hai superati?

La mia visione del processo creativo è come una sorta di digestione: ci sono momenti in cui assorbo esperienze e idee, e altri in cui rigetto ciò che ho accumulato. In passato, dividevo questo processo tra la fase di assorbimento, svolta a Milano o altrove, e quella di produzione, che avveniva invece in Basilicata. Tuttavia, con il tempo, ho dovuto ridurre gli spostamenti e sto cercando di trovare un equilibrio qui, per continuare i miei progetti. Spesso, il telefono squilla e sono coinvolto in varie attività, rendendo difficile concentrarmi completamente sulla creatività. Anche in questo momento, partecipo all’organizzazione di un evento. Nonostante le molte persone coinvolte, il tempo dedicato a un singolo pensiero è limitato. Tuttavia, non ho mai sperimentato blocchi creativi veri e propri. Quando inizio un progetto, parto sempre da un’idea ben definita e svolgo una ricerca approfondita su un tema specifico.

Quindi senti maggior spinta produttiva in Basilicata, e quella creativa a Milano?

Si perché in Basilicata la vita è semplificata: vai in banca, al supermercato, in posta e tutto è vicino. A Milano la città è molto più grande, raggiungere posti diversi richiede più tempo. Inoltre, ho paura di perdere di contemporaneità se avviassi il processo creativo in Basilicata. Non voglio mai perdere questo attributo, che è una mia costante ricerca. Un designer deve anticipare le tendenze e riflettere le questioni sociali. Per questo cerco di avere sempre le antenne ben puntate! Anche se leggevo qualche tempo fa questa frase bellissima di Baudelaire: Per me, un’opera d’arte è contemporanea se è piena di vita, perché non muore mai.”

Ti sei mai chiesto come comunicare la tua opera sui social? 

Per fortuna io ho perso un po’ l’attaccamento alle mie opere, ma prima ne ero profondamente legato. Avevo difficoltà a farli vedere, a farli toccare, anche a mia mamma (ride). Per me era anche un po’ traumatico postarli sui social. Un po’ come quando porti tuo figlio al primo giorno di scuola e qualcuno ti dice che è brutto, o che non è abbastanza bravo come gli altri, io sentivo molto questo tipo di attaccamento. In questo ultimo periodo però come ho detto sono cambiato. Forse ho iniziato a rilassarmi e anche ad accettare l’idea che non siamo tutti, sempre, perfetti. E così anche i miei figli, possono essere imperfetti.

Con quali celebrità pensi di aver lasciato maggiormente un’impronta estetica?

Secondo me, con la Niña del Sud. Mi comparì la sponsorizzazione su Instagram del suo primo singolo ‘Croce’, e quando iniziò a cantare in napoletano, impazzii completamente, perché trovai una similitudine tra il loro progetto musicale e quello che stavo facendo io con la moda: parlavano della loro terra e delle tradizioni, ma con un approccio iper-contemporaneo e universale. Con lei, abbiamo fatto un lavoro bellissimo che è durato un paio di anni. Poi ci siamo separati, forse perché eravamo diventati troppo simbiotici, perché io lavoravo solo con lei e lei lavorava solo con me. Si è visto molto di lei in me e viceversa. È stato come avere una musa.

 

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⁠La tua collezione “t.v.1.k.d.b.” ha un’evidente impronta pop. Da dove nasce l’ispirazione per questo particolare stile?

T.v.1.k.d.b. era la mia tag all’istituto d’arte di Potenza. Per questa collezione avevo bisogno di leggerezza, perché quando ti immergi in un tema a fondo, rischi di prosciugarti. Invece, ho avuto bisogno di ricordarmi di un periodo un po’ più felice e un po’ più semplice, quindi anche con un design non completamente pensato, con delle cose un po’ più catchy e divertenti. Anche l’evento a Rinascente è stato molto divertente, c’è stata molta gente, come ad esempio M¥SS KETA, Big Mama e Anna Pepe. Abbiamo fatto anche Dj set, la ragazza al microfono era @defollowami ed è stata pazzesca. Faceva da speaker in Rinascente, è stato veramente un pink rave.

 

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In molte tue campagne vediamo l’uso del 3D, sono delle grafiche stupende. Come mai hai deciso di approcciarti a questa tecnica per promuoverti? 

Ho lavorato col 3D prima che uscisse il 3D: cioè io facevo prospettive tridimensionali su Photoshop, un po’ quello che si fa adesso con l’intelligenza artificiale. L’idea mi era partita perché prima ho fatto architettura. Creavo questi spazi 3D, fantastici e realistici, grazie appunto a giochi di luci e prospettiva. Poi il fenomeno si è ampliato e penso che il primo programma che usai era quello lì dei videogiochi un po’ anni 80, Unity. Adesso sto lavorando con l’intelligenza artificiale. Ho tantissimi colleghi che sono spaventati. A me non spaventa il progresso, io sono felice che escano altre tecniche, per migliorare, per migliorarci. Credo che la tecnologia sia un compagno, non un competitor.

Non è la prima Fashion Week a cui partecipi. Come ti sei sentito la prima volta?

Allora, la prima Fashion Week non la ricordo molto bene. Innanzitutto, già durante l’università, mi è sempre piaciuto organizzare eventi, come per la tesi. Mi sono sempre autopromosso. Tra l’altro anche in posti molto belli, come la presentazione della collezione di Tesello Straffi in Duomo. La mia prima collezione alla Fashion Week, la Brigantessa 2.0, fu un po’ traumatica. Era un tema a cui tenevo molto, perché per la prima volta le donne in Basilicata affiancavano o superavano gli uomini. Quel tema rappresentava la forza che vedo in queste donne lucane, apparentemente sottomesse ma con una forza organizzativa e mentale superiore a quella degli uomini, che principalmente si dedicavano a lavori fisici. Durante l’organizzazione però, morì mio padre. Tutto ciò avvenne proprio in concomitanza al mio ritorno in Basilicata. Ero sceso con la fotografa e il team per scattare le foto, ma due settimane dopo c’era la sfilata. Terminati gli eventi ero un po’ ovattato da ciò che era appena successo nella mia vita. Non ricordo bene quei momenti. Non so neanche dire se ero ansioso. La Fashion Week andò molto bene. Il cappello di Beyoncé nasce proprio da un pezzo di questa collezione, di cui poi sono state fatte due varianti.

Come ti senti invece ora per l’evento di questo venerdì?

Sicuramente oggi ho meno ansia. Penso però che questa derivi dall’incertezza, dall’insicurezza di non sapere cosa c’è all’interno di quel mondo. Adesso, sebbene possano avvenire ancora problemi, so dove andare e chi chiamare, e forse ho qualche soldo in più da investire. Quindi mi sento più tranquillo e cerco di godermi il momento. A volte, quando ti ritrovi a fare le cose, ti dimentichi che dieci anni fa ci tenevi molto. Quindi penso sia importante rispettarsi.

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Crediti della collezione:
Brand Designer: Salvatore Vignola /Fashion Direction: Thais Montessori Brandao / Curator: Aya Mohamed Milanpyramid  / Copywriter: Elena Canesso / Choreographer: Daniele Vitale / Choreo assistant: Marika Veca / Sound experience: Palestinian Sound Archive / Visual experience: Amira Suboh, Jasmine Barri, Mohammed el Hajoui / Set Designer: Valerie Khoury / Set Producer: Omar Qubain / Filmmaker: Giacomo Fausti / Director of Photography: Lilia Carlone / Copywriting consulting: Dalia Ismail / Choreo Dabke consulting: Fer’et el Awda – Gruppo del ritorno / Fashion support: NABA – Elena Micalizzi, Francesco D’Intino, Siria Mariaelena Pascolino, Manuela Geri, Teodora Gavrilovic, Merve Karali / Fashion collabo: Trashy Clothing With thanks to: Palestine Red Crescent Society, readymade