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“Antony Morato? La storia di una follia ragionata”: l’intervista al CEO, Lello Caldarelli

La storia di Antony Morato, un brand di moda maschile nato da un’esigenza ma reso grande grazie ad un pizzico di sana follia, raccontata dal CEO e fondatore, Lello Caldarelli

di Sara Radegonda | 13 Gennaio 2024
Foto: Ufficio stampa

Mentre il mondo veniva messo all’angolo dalla crisi economica Raffaele Caldarelli, per tutti Lello, metteva in pratica il fulcro vincente della sua filosofia di vita: è nei momenti maggior difficoltà che l’uomo riesce a tirare fuori il meglio di sé. E così nel 2007 è nato Antony Morato. Un brand di moda maschile Made in Italy che cela, dietro ad un nome e un cognome che non sono quelli del suo fondatore – ma di una pizzeria del New Jersey –, l’equilibrio vincente di una visione condita con un pizzico di follia, in un cocktail di incoscienza e coraggio, privilegio esclusivo di chi non si definisce sognatore, ma visionario.

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Lello Caldarelli Antony Morato: “Vi racconto come è nato il brand”

Chi era Raffaele Caldarelli prima di diventare il CEO di Antony Morato?

Sono cresciuto in provincia, in un contesto chiuso, ma grazie alla mia curiosità ho iniziato a girare e mi si aperto, davanti agli occhi, lo spettacolo di numerosi mondi. Se vogliamo legare questo concetto al mondo del business, sono nato in una famiglia in cui si masticava moda già da due generazioni, quindi il percorso è stato abbastanza segnato fin dall’inizio. Ovviamente poi con la maturità ho portato una visione diversa di business: ho fatto per tanti anni produzione per altri nel settore moda, ma ad un certo punto mi è venuta la voglia di costruire un progetto mio. E è nato Antony Morato.

Qual era l’esigenza che ti ha spinto ad avviare questo progetto?

Il brand ha avuto origine con un concetto semplicissimo: cercare di portare sul mercato quello che un cliente come me – all’epoca ero un ragazzo di 26 anni – desiderava, ma non riusciva a trovare. Da qui è nata l’idea di dare concretezza alla visione di portare un prodotto di lusso al segmento medio. Quindi, alla fine, più che un prodotto abbiamo creato il posizionamento di un prodotto nuovo, che nel segmento medio non c’era. L’idea è risultata vincente sin da subito, al quale è seguita un’escalation che ci ha condotto oggi ad essere un brand distribuito in più di 60 paesi, con 4 milioni di pezzi venduti all’anno e nel nostro diciassettesimo anno di vita, ad un fatturato di 76 milioni.

Antony Morato CEO

Foto: Ufficio stampa

Il successo era nei tuoi piani di adolescente?

Faccio fatica ad usare il termine successo. Sembra quasi semplice, dopo aver raggiunto un obiettivo, dire che è stato tutto frutto di una strategia, di un piano messo a punto a monte, ma la realtà è che ho vissuto tutto sempre step by step. All’inizio non avrei minimamente immaginato di arrivare a questo punto, non lo sognavo neanche. Se qualcuno mi avesse raccontato questo film, non ci avrei creduto. Semplicemente nel momento in cui riesci a sfruttare bene le opportunità e raggiungi un traguardo dopo l’altro, riesci a dare forma a questo castello che più di successi è fatto di esperienza e lungimiranza.

Il brand porta un nome e un cognome che non sono i tuoi, perché?

Quando nel 2007 avevo deciso di avviare il mio progetto, avevo notato che tutto il mondo del lusso – a cui mi ispiravo per il mio prodotto- era composto da designer, mentre il mondo del casual del settore medio – a cui guardavo con stanchezza – era costellato di marchi. Infatti il concetto del designer che interpretava con la sua visione l’ultima moda del momento, non esisteva nel segmento medio di mercato. Allora ho capito che, per portare il concetto di designer nella media distribuzione, non potevo fare l’ennesimo marchio quindi mi serviva un nome e un cognome. Io mi chiamo Raffaele Cardarelli, un nome cacofonico, poco internazionale, troppo lungo, quindi ho deciso di sfruttare un approccio molto semplice: ho cercato nella Bibbia dei nomi e cognomi, l’elenco telefonico. All’epoca c’era un mio amico che stava facendo una consulenza in New Jersey e gli ho chiesto di portarmi un phone book direttamente dall’America. Sfogliandolo ho trovato una pizzeria che si chiamava “Morato by Antony”, senza l’acca. Un nome e un cognome, sei lettere e sei lettere, con un’ispirazione cosmopolita – visto che erano gli anni della globalizzazione -, era perfetto. Uno dei miei rimpianti più grandi è di aver perso quell’elenco telefonico.

Chi è l’uomo che veste Antony Morato? E qual è l’elemento che rimane costante nelle vostre collezioni?

Quando ho fondato Antony Morato avevo ben chiare le mie esigenze di ragazzo di 26 anni che amava vestirsi bene, ma non con look non troppo audaci o urlati. Sono sempre del parere che nella moda sia tutta una questione di equilibrio: se arrivi in un posto e vieni notato subito per il tuo look, potenzialmente, sei uno che dopo pochi minuti stanca; se invece sei uno che quando entra in un luogo non viene notato subito, ma quando va via viene ricordato, vuol dire che era impeccabile. Ed è l’obiettivo che ci diamo noi per costruire il look dell’uomo Antony Morato. Inoltre all’epoca ero abbastanza stanco del casual, di questo abbigliamento di stampo fin troppo quotidiano e informale, e per trovare un capo più ricercato con quel tocco di sartorialità dovevi per forza rivolgerti al mondo del lusso – con prezzi inaccessibili. L’idea di base è stata quella di creare un prodotto di lusso, a prezzi accessibili, adatto a una distribuzione di fascia media.

Se arrivi in un posto e vieni notato subito per il tuo look, potenzialmente, sei uno che dopo pochi minuti stanca; se invece sei uno che quando entra in un luogo non viene notato subito, ma quando va via viene ricordato, vuol dire che era impeccabile.

Antony Morato CEO

Foto: Ufficio stampa

Considerando che la componente innovativa scorre nel DNA delle collezioni Antony Morato, come entra il concetto di genderless nel brand? Pensi che oggi sia necessario inglobare questa estetica?

Antony Morato non ha mai approcciato in modo ufficiale ad un prodotto genderless. Siamo un marchio specializzato nell’uomo, ma abbiamo anche una parte del mondo femminile che si affaccia sempre più al nostro prodotto. Se da un lato tendo a ricercare nella moda la componente innovativa, dall’altra sono molto conservativo e, in quanto tale, ritengo che la moda da uomo e da donna siano due mondi separati, due settori con esigenze diverse. Il genderless, dunque, mi sembra quasi una forzatura: come se si dovesse creare per forza una mediazione che vada bene ad entrambe le parti; mi ricorda un po’ la filosofia della Democrazia Cristiana. Rispetto chi porta avanti questa estetica, ma io credo poco al concetto di moda gendeless. Diciamo che chi usa il concetto di genderless, lo associa spesso a quello di inclusività, ma secondo me una cosa non esclude l’altra. Noi siamo un brand inclusivo, raccolto sotto al claim Unity, che vuole sottolineare l’importanza di essere se stessi indipendentemente dal sesso, anche se non facciamo capi gender fluid. La fisicità maschile e quella femminile hanno volumi diversi, trovare qualcosa che vada bene ad entrambi è un’evidente forzatura. Penso che i nostri clienti ci scelgano perché i capi vestono in un certo modo e ciò è frutto dell’analisi della fisicità maschile al dettaglio.

Antony Morato The Sound of Unity: quando la moda incontra la musica

Antony Morato è un brand in continuo dialogo con l’arte e le sue sfumature: dalle collaborazioni con artisti emergenti come Tvboy e Lodola, al progetto The Sound of Unity, un contest dedicato al mondo della musica e aperto al pubblico. Ci parli di questo nuovo progetto?

Nella vita ho sempre cercato di coltivare i miei interessi, i quali hanno poi, di riflesso, arricchito il mio knowhow lavorativo. Ricerco un dialogo continuo tra Antony Morato e i miei mille interessi e da questo approccio sono nate le collaborazioni con artisti emergenti come Tvboy e Lodola o con fondazioni che gestiscono patrimoni di grandi artisti come Keith Haring. Allo stesso moda è nato il progetto The Sound Of Unity, ho cercato di unire la mia passione per la musica al lavoro, così da divertirmi e lavorare allo stesso tempo. La musica, inoltre, nella mia vita riveste un ruolo fondamentale; posso dire che ci vivo immerso: faccio la doccia con la musica classica, mi sveglio con i Blur e gli Oasis, torno a casa la sera con i Rolling Stones nelle orecchie e mi coccolo la sera con il lounge. The Sound Of Unity è un vero e proprio contest musicale, in cui diamo la possibilità a giovani producer o dj – perché ci sono due categorie – di affacciarsi a quello mondo che oggi è molto competitivo, al fine di concretizzare il proprio sogno. Il progetto dura sei mesi, inaugurato il 10 gennaio si chiuderà a giugno con un altro evento sempre a Firenze, e prevede la presenza di tre giudici di spessore internazionale – che poi saranno anche tutor: Andrea Oliva, Lele Sacchi e Francesco Tristano selezioneranno nel corso dei mesi tre ragazzi che avranno la possibilità di esibirsi in secret party in giro per l’Europa. In seguito l’evento che faremo durante la settimana della moda a Firenze decreterà i due vincitori: il vincitore della categoria dj parteciperà ad un festival europeo, invece chi trionferà nella categoria producer verrà supportato da noi, per un anno, nella produzione della sua musica.

Quando è importante per un brand il coinvolgimento della community?

Oggi qualsiasi cosa compri, dal punto di vista materiale – che sia un oggetto o un capo di abbigliamento – non viene valutato esclusivamente per la qualità, il valore o il design ma anche per il brand. Quindi il consumatore cerca un’affinità con il brand stesso: oggi nessuno compra più cose per esigenza, le cose si comprano per emozione. Dunque un brand deve emozionare, per questo c’è l’esigenza di ingaggiare la community attraverso degli argomenti che rappresentino i valori e gli interessi del brand – che si rispecchiano poi sul consumatore. Oltre al bello e brutto, il consumatore ricerca la profondità di un legame.

Antony Morato The sound of unity

Foto: Ulisse Albiati

Tu hai detto: “Tutti mi dicono: è stata genialità, e io rispondo: no, è stata un’esigenza. Coraggio? No, io la chiamo incoscienza!”. Cosa c’è dietro a questa frase?

Ho detto questa frase, raccontando la mia storia, per far capire che le decisioni più importanti che hanno fatto davvero la differenza per l’azienda, più che essere prese per una questione strategica, sono state fatte sulla scia dell’esigenza. Perché io dico sempre che se vuoi il meglio da un essere umano, nella creatività, lo devi mettere in difficoltà, devi metterlo all’angolo. È in quel momento viene fuori il meglio. Le comfort zone non hanno mai fatto bene a nessuno. In questi 17 anni abbiamo avuto numerosi momenti difficili, ma sono stati questi che ci hanno messo in condizione di fare delle scelte coraggiose, incoscienti. Perché, alla fine, le scelte coraggiose comportano sempre un pizzico di incoscienza altrimenti sarebbero ragionate.

Nel futuro di Antony Morato cosa c’è?

Spero tanto divertimento, come lo è stato fino ad ora. Porteremo avanti il nostro progetto di diventare un riferimento a livello mondiale, per un target più ricercato, composto da coloro che amano la moda ma non la prendono troppo sul serio. A cui piace vestirsi bene ma senza per forza volerlo urlare al mondo.