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La recensione di Grazia Sambruna

Flaminia: Michela Giraud adesso fa piangere. Ne sentivamo il bisogno?

Tutto buoni sentimenti e scelte coraggiose contro la gretta ipocrisia del quartierino, il film non è la commedia che ci si sarebbe potuti aspettare da quel “mignottone pazzo” di Michela Giraud

di Grazia Sambruna | 15 Aprile 2024
Foto: Flaminia

Per scrivere di Flaminia, esordio alla regia di Michela Giraud, non c’è bisogno di un machete. Il film pensa da solo a prendersi a cazzotti sul grugno tramite un complesso sistema di specchi ed ego ipertrofico. È come vedere Mike Tyson che si stacca un orecchio da solo sul ring. Chi avrebbe mai il coraggio di intervenire? Va benissimo così, lasciamolo fare. La stand up comedian, unica donna nostrana a poter vantare un intero special solista su Netflix, ci porta nella sua Roma Nord tutta apparenza, gran dobloni e (cafonissime) chiccherie. Lo fa per raccontare una storia, forse semi-autobiografica, di ricongiungimento famigliare. La protagonista, Flaminia, alla vigilia delle nozze con un giovane riccastro, deve fare i conti con una sciagura che rischia di sparigliarle la vita: la problematica sorella(stra) Ludovica che le piomba improvvisamente in casa perché cacciata dalla comunità in cui fino a quel momento era stata confinata per quieto vivere e amor di facciata borghese. Flaminia non ne è entusiasta, ma il suo arco narrativo imporrà ai ventricoli dell’arido cuore che tiene in petto una inevitabile inversione a U.

Tutto buoni sentimenti e scelte coraggiose contro la gretta ipocrisia del quartierino, il film non è la commedia che ci si sarebbe potuti aspettare da quel “mignottone pazzo” di Michela Giraud. E che il trailer, piuttosto ingannevole in questo senso, lascia presagire. Qualche battuta c’è, ma il focus della narrazione è il rapporto tra Flaminia e la sorella(stra). Rapporto che cresce di scena in scena, tra un dispetto e l’altro, raggiungendo anche picchi emotional non indifferenti. In poche parole, invece di ridere si rischia di frignare in sala. E questa, forse, è l’unica vera “sorpresa” che il film riesce a regalare. Con Flaminia è come se Michela Giraud, anche sceneggiatrice del progetto, dopo averci ricordato ogni giorno e per anni di essere “fregna”, volesse aggiungere qualcosa alla narrazione che fa di se stessa: in fondo, per quanto magari non si direbbe, ha anche un cuore d’oro. E chissenefrega?

Flaminia Michela Giraud
Foto: Flaminia

Flaminia di Michela Giraud, la recensione

Siamo di fronte a un’opera prima, quindi non possiamo né vogliamo certo epitaffiare la Michela Giraud regista. Eventualmente, avrà tutto il tempo per mettere insieme una storia con maggior sostanza, con quel graffio “burino” che, senza dubbio, la nostra mostra sui social e sui palchi delle date con cui scorribanda per il bel Paese. Non è che il film non faccia ridere, è che non ci prova nemmeno. Il tentativo è quello di virare sul dramma famigliare dove la protagonista si erge come una sorta di ibrido tra Madre Teresa di Calcutta e Bud Spencer finito chissà come sul set di Un Posto al Sole. Se solo Un Posto al Sole fosse girato coi soldi e a Roma Nord. Non a caso, è presente nel cast anche Nina Soldano, la storica Marina Giordano della longevissima soap di Rai 3, di cui Giraud è fan super accanita.

A differenza di quanto accadde per lo special Netflix La Verità, lo giuro!, la critica sembra mostrarsi tiepida nei confronti di Flaminia. Nessuno ne scrive male tout court, ma nemmeno ne vediamo la regista, sceneggiatrice e protagonista sulla cover di Rolling Stone con una corona in capo, proclamata (dalla stampa più che dal pubblico) “regina della comicità italiana”. È già qualcosa. Anzi, molto. Mettiamola così, Flaminia ha anche un problema di “timing”: se fosse uscito ai tempi di LOL, fiumane di gente si sarebbero riversate in sala, anche solo perché Giraud era sulla bocca di tutti. Oggi non è così. E allora forse sarebbe stato meglio tenere la pellicola nel cassetto dei sogni fino al momento di un nuovo epicentro “LOL” della sua carriera.

Michela Giraud Flaminia
Foto: Flaminia

Michela Giraud alla regia: una spremuta d’ego

Dopotutto, la trama può anche essere godibile come dolcificante. Solo che da Michela Giraud non ci si aspettavano Cortesie per gli Ospiti. La sensazione diffusa è che il film sia “intoccabile” perché, in ogni caso, parla di un vissuto personale: l’attrice ha davvero una sorella autistica di cui fa menzione anche nel già citato special Netflix. Senza entrare nel merito, qui verrebbe solo da dire che Paolo Sorrentino ha aspettato 30 anni (e un Oscar) per raccontarci i drammatici fattacci suoi in È Stata la Mano di Dio. Le storie personali, per quanto potenzialmente esplosive perché tutti noi tendiamo a costruire l’epica di noi stessi, sono scivolose. Ci vuole il giusto distacco per poterle raccontare senza apparire smaccatamente ombelicali.

Michela Giraud, purtroppo o per fortuna, è ombelicale. Ci ha costruito sopra una carriera e buon per lei. Solo, stare a fissarsi l’ombelico come fosse il centro del mondo per 98 lunghissimi minuti non paga su grande schermo. Significa buttare in faccia allo spettatore una spremuta d’ego che nessuno aveva ordinato al bancone, né alla biglietteria del cinema. Non al di fuori, insomma, della durata di un feroce reel in salsa “Educazione Cinica” (che rimpiangiamo assai, tra l’altro). Metaforicamente un feto a livello registico, la sua unica preoccupazione sembra essere che la trama le consenta di uscire bene, di restituire all’Italia intera l’idea che Michela Giraud non sia solo divertente e fregna, ma pure di buon cuore, capace di commozione e compassione. Il tutto scritto, diretto e interpretato da Michela Giraud. Famo a capisse: lei, secondo lei, è “Flawless”, come si definisce ironicamente (?) sin dalla prima scena. E beccateve ‘sti spicci. 

Eccepibile sotto molteplici aspetti, Flaminia è un film pure adatto ai palati degli appassionati di melò da fiction Rai. Allo stesso tempo, però, si smarrisce per strada. Vuole esser commedia (magari pure brillante), ma non ci prova davvero. Allora vira sul dramma famigliare, ma dietro alla macchina da presa non c’è Gabriele Muccino. Lo stile soap dell’ultima scena in cui vediamo la protagonista irradiata da un fascio di luce tipo apparizione mariana mentre il vento le smuove i capelli dentro una stanza con le finestre chiuse, vogliamo sperare intendesse essere ironica. Anche se contiene l’enfatico lieto fine dell’intera vicenda. Mentre scorrono i titoli di coda, inevitabile domandarsi: avevamo davvero bisogno di questa versione kleenex di Michela Giraud?