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God save The Crown: l’esperienza della fine che rivela il dramma del futuro

The Crown, titoli di coda. La stagione finale della serie è iniziata con il capitolo poco memorabile dedicato alla morte di Diana, per concludersi con una riflessione profonda sul futuro della monarchia

di Sara Radegonda | 19 Dicembre 2023
Foto: Netflix

L’esperienza della fine è uno dei fardelli maggiori che la serialità moderna ha consegnato al suo pubblico. Se prima gli ha concesso il lusso perverso della procrastinazione, regalandogli titoli che non finiscono mai, dall’altro ha reso ancor più violento l’impatto di quel “The End” che, per rifuggirne la pena, si è auto-censurato scomparendo dai titoli di coda. E in un terreno così contorto e fragile è del tutto scontato, se non necessario, farsi del male. Ma in fin dei conti la fine che cos’è, se non un attimo di puro dolore, prima di un perpetuo sollievo.

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Nonostante questa pesante consapevolezza gravasse sulle sue spalle, The Crown ha accompagnato il pubblico lungo la navata vuota di Westminster, percorsa dalla regina Elisabetta negli ultimi istanti di quella che non è stata solo una serie tv, ma un’antologia – romanzata – di una famiglia, di un pezzo indelebile di storia. L’epilogo della serie scritta da Peter Morgan ha perseguito con religiosa coerenza il cammino tracciato nel corso delle stagioni, in una tensione premeditata verso l’auto-distruzione. La serie è peggiorata di stagione in stagione, esattamente come è peggiorata la famiglia reale, pressata dalla stampa che l’ha messa di fronte al proprio inevitabile smarrimento. Un sentiero di auto-sabotaggio che la serie non ha solo messo in scena, ma che ha cucito nel tessuto della sua stessa trama, accompagnando la famiglia reale – e il pubblico – verso la dolorosa consapevolezza della fine.

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I primi episodi della sesta stagione dedicati alla morte di Lady Diana sono stati affrontati con manifesta pesantezza e una fretta fin troppo palese – che ha restituito al pubblico una sensazione simile a quella di aver percorso i 100 metri con un peso al collo; quattro episodi che hanno rappresentato un vero e proprio abbaglio, simboleggiato dai flash dei paparazzi, come a restituire al pubblico la fastidiosa sensazione di una luce accecante – che era Diana -, la quale una volta spenta ha gettato la famiglia nel baratro. E gli episodi successivi hanno messo in scena il buio della crisi e dello smarrimento che non hanno risparmiato neanche la più granitica della famiglia, la regina Elisabetta.

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Nel cammino verso l’epilogo la regina Elisabetta, interpretata dalla magistrale Imelda Stauton, torna ad essere al centro della storia per svelarne un lato inedito. La sovrana, per la prima volta, è vittima di uno smarrimento interiore: di fronte alla scomparsa di due dei suoi pilastri, la sorella Margaret (l’episodio Ritz a lei dedicato resta l’omaggio più bello dell’intera serie) e la regina madre, e al carisma di un primo ministro (Tony Blair) avido di consensi, la sovrana si trova alle porte della propria selva oscura, ove la retta via era smarrita. Di fronte ai cambiamenti, la regina cerca disperatamente di ridisegnare il ruolo della monarchia per poi comprendere, volgendo lo sguardo al passato, che la soluzione è solo una: “La modernità non è l’unica risposta, alle volte la tradizione lo è” recita di fronte al primo ministro e alle sue richieste per “svecchiare” la monarchia.

Infine, mentre i componenti della famiglia mostrano i loro lati meno reali e più umani, la regina si rende conto la salvezza della Corona è nelle sue sole mani. E di fronte alla sua dipartita il significato dell’intera serie si rende manifesto, quel senso che si comprende solo quando le cose finiscono: la monarchia morirà con la regina Elisabetta. Anche se la speranza da lei riposta nel futuro porta il nome di William, e non quello di Carlo.